L'arte colpita dall'alluvione, dal 1966 a oggi. Ricordi e lavori

Saggio di Cristina Acidini

Quindicenne con la casa all’asciutto e il liceo sommerso, nel 1966 cominciai appena a comprendere la portata dell’alluvione di Firenze, gradualmente ma nitidamente, a partire dalle percezioni sensoriali di quelle ore e di quei giorni, convertite in vivissimi ricordi. Dalla radiolina a transistor, il rombo dell’acqua nel cuore del centro storico, captato dal microfono che con mossa geniale (e risolutiva nei confronti delle evasive reazioni romane) Marcello Giannini calò dal palazzo della RAI sulla piena scorrente. Dalle sortite con amici e compagni di scuola, nei giorni successivi, la visione dei luoghi invasi dalle grigie masse di melma, dai tronchi ammassati, dalle auto accatastate; e l’odore indimenticabile, quel misto freddo e acre di fanghiglia e di nafta che per anni si è risentito in certi androni e scantinati. Il patrimonio culturale colpito lo toccai con mano alla Biblioteca Nazionale e al Museo di Storia della Scienza, dove lavorai al recupero di libri e apparecchi, da angelo del fango nostrale, senza che ricevessi alcun riconoscimento ufficiale. Le fotografie, i film, gli instant book, le celebrazioni contribuirono poi a fissarmi nella memoria i fatti salienti di quello che a tutti gli effetti, per chi era nato dagli anni Quaranta in poi del secolo scorso, fu in termini di “epos” personale l’equivalente della guerra.

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Ben altra consapevolezza della devastazione subita da chiese, musei e luoghi d’arte e di cultura, avrei acquisito qualche lustro più tardi, al servizio delle Soprintendenze fiorentine.

In realtà poteva sembrare, negli anni Ottanta, che la tragedia fosse stata superata, grazie a quella volontà di resilienza che aveva caratterizzato il comportamento di tutti, dalla classe politica ai cittadini di ogni estrazione. La solidarietà di paesi, istituzioni, volontari si era espressa in innumerevoli, e tutte nel proprio ambito, generose prestazioni di aiuto. Erano stati esemplari i ripristini dei luoghi e i salvataggi delle opere, a partire dai simboli più eccelsi che commossero il mondo: il Cristo di Cimabue, la Maddalena di Donatello, le Porte del Battistero, per non parlare dei metri e metri di materiali cartacei di biblioteche e archivi…

A ripercorrere le notizie e la bibliografia si constata che ben presto, già nel 1967, le principali istituzioni museali e culturali fiorentine diffusero a stampa un resoconto dei danni subiti, che sotto il sobrio titolo Rapporto sui danni al patrimonio artistico e culturale raccoglieva in un’autentica coralità le voci autorevoli di responsabili e di protagonisti del riscatto in corso (1). A rievocare autori e argomenti di grande prestigio ed interesse, e soprattutto presentati con conoscenze di prima mano, acquisite sul campo, basti rammentare, oltre a quelli del suddetto Rapporto, i contributi di Umberto Baldini, Giorgio Batini, Nello Bemporad, Guglielmo Giordano, Francesco Gurrieri, Roberto Longhi, Giovanni Previtali, Ugo Procacci, Carlo Ludovico Ragghianti, John Shearman, Bruno Thomas (2).

I musei intanto avevano recuperato la loro fruibilità per quanto possibile in tempi rapidi, essendo in grado, alla scadenza d’un anno dal disastro, di organizzare mostre che davano conto dei tanti restauri di oggetti d’arte già avvenuti. Sempre in quell’anno ’67, già circolavano resoconti sulla limitata frazione del patrimonio artistico migrata all’estero per restauri specialistici.

È a quella coralità di contributi che questa mostra e il suo catalogo s’ispirano, mutuando il criterio di acquisire ricordi e prospettive dai diretti responsabili odierni, ma anche dando spazi ulteriori agli attuali rappresentanti di quei soggetti che, con minore evidenza, vissero comunque la propria vicenda di danni e di restauri.

Ai tempestivi contributi degli estremi anni Sessanta avrebbe fatto seguito una vasta letteratura, in termini di atti di convegni, articoli, cataloghi di mostre, libri commemorativi, inserti speciali nei quotidiani, specialmente addensati negli anni delle ricorrenze decennali, dal 1976 in poi. Tra il 2 e il 7 novembre 1976, appunto, si tenne a Firenze il Convegno sul Restauro delle Opere d’Arte danneggiate dall’alluvione (Palazzo dei Congressi), promosso dall’Opificio delle Pietre Dure a cura di Anna Maria Giusti. Il convegno comprese, fra gli altri, interventi di Umberto Baldini, Paolo Dal Poggetto, Francesco Gurrieri, Antonio Paolucci, Franco Piacenti e partecipanti internazionali. Gli atti uscirono nel 1981 e furono meritoriamente ristampati nel 2006.

Dunque a chi, come me (e come un notevole numero di storici dell’arte assunti dal Ministero con lo stesso concorso), fosse entrato nel servizio dei beni culturali qualche lustro dopo il tragico evento, non mancavano gli strumenti per conoscere o almeno, per inquadrare con buona approssimazione, l’entità reale del disastro del 1966. Eppure, nei miei ricordi di funzionaria nelle Soprintendenze fiorentine a partire dagli anni Ottanta, la percezione dell’immenso lavoro compiuto e del pesante retaggio di situazioni critiche ancora in essere fu graduale, una sorta di rivelazione che si manifestava per episodi. Una volta era la “scoperta”, negli ambienti sotterranei della Villa Petraia di cui ebbi la direzione, di affollati depositi di manufatti liturgici, lignei e non soltanto, che nessuno avrebbe più reclamato né insistito per far restaurare.

Una volta era la visita alla villa medicea di Poggio a Caiano, parimenti ospitante arredi lignei, anche di grande pregio, ‘fermati’ nel loro stato frammentario e stretti nella morsa del fango secco.

Una volta era l’avventura di rintracciare una grande tavola quattrocentesca sdraiata e velinata fra i casi disperati nel Cenacolo di Fuligno, una di quelle opere che si sarebbero salvate se fossero rimaste in sede (veniva da una chiesa conventuale del Mugello!) e che invece furono colte dal flutto alluvionale mentre attendevano l’intervento di restauro nel Laboratorio della “Vecchia Posta” fondato nel 1932 presso gli Uffizi da Ugo Procacci.

Verifiche come queste s’andavano a inserire in una rete sempre più ampia di informazioni e di controlli de visu, restituendo progressivamente la proporzione biblica dei danni subiti, risarciti e non. Per tentare un paragone filmico, ho sempre immaginato questa graduale acquisizione di consapevolezza come l’epica scena della stazione ferroviaria di Atlanta in Via col vento (1939): le prime inquadrature riprendono Scarlett O’Hara che s’aggira tra gruppetti di feriti sdraiati a terra, poi progressivamente la cinepresa s’innalza, il campo s’allarga, e la visione di centinaia di soldati sofferenti, in un brulichio da girone infernale che dilaga su piazzali e banchine, rende manifesta in tutta la sua dismisura la tragica disfatta dell’esercito sudista (non a caso Ernest Haller, il direttore della fotografia del film, vinse l’Oscar quell’anno). Da Soprintendente vicario per i beni artistici, poi dell’Opificio delle Pietre Dure, poi del Polo Museale Fiorentino, poi della Soprintendenza Speciale abolita nel 2014, ebbi ampiamente modo di stimare il danno occorso, di apprezzare il lavoro fatto e, con il supporto di colleghi valenti e dedicati, di portare avanti per quanto e come possibile la ricognizione delle criticità e delle necessità residue e il restauro di un’opera dopo l’altra, ormai fuori dai riflettori delle attenzioni mediatiche, se non alle scadenze decennali, sempre in precario equilibrio fra soddisfazioni e polemiche.

A cinquant’anni dall’alluvione, quindi, tornare a considerare lo “stato dell’arte” del recupero del patrimonio artistico e culturale non ha nulla della retorica celebrativa, ma anzi costituisce un imperativo categorico per la variegata tipologia dei responsabili che si sono avvicendati.

I ‘numeri’ dei beni colpiti dall’alluvione non furono mai quantificati con certezza, e probabilmente sfuggiranno sempre all’incasellamento in cifre esatte. Qualche anno dopo Bruno Molajoli a proposito del patrimonio artistico pubblico scrisse:

Furono travolti e danneggiati dall’alluvione: 320 dipinti su tavola; 692 dipinti su tela; 495 sculture (184 in marmo, 8 in bronzo, 63 lignee, 25 in terracotta, le restanti in stucco o in gesso); 64 affreschi nelle pareti d’origine, molti dei quali di grandi dimensioni; 8 intieri cicli di pitture murali; 60 affreschi staccati e riportati su telai; 47 corali miniati; 5 corali non miniati; 16 disegni; 51 stampe; 27 arazzi; 7 cartoni per arazzi, tutti di grandi dimensioni; 288 arredi sacri di stoffa (piviali, pianete, paliotti ecc.); 1810 armi e armature antiche. E non si contano le migliaia di quegli oggetti, arredi, mobili, suppellettili, cui si è accennato più sopra (3).

E restavano incalcolabili i beni culturali diffusi in edifici minori della città e del territorio o nelle proprietà private nonché – per spostarci nel settore della carta – le filze e i libri danneggiati o perduti corrispondenti a chilometri di scaffalature.

I dati vennero affinati nel tempo, cosicché venti anni dopo “La Nazione Firenze” informava i suoi lettori a proposito del patrimonio artistico: i cicli di affreschi erano 11, gli affreschi singoli 130, i vasi e reperti etruschi 12.000 (4). Il numero degli arredi sacri continuava a essere imprecisabile, così da risolversi con l’aggettivo “infinito”. E venivano calcolate in un migliaio le opere giacenti in attesa di restauro nei depositi della Fortezza, Pitti, Villa Corsini, Cenacolo di Fuligno.

Con l’assottigliarsi progressivo delle fila dei beni in attesa di restauro, in ragione degli interventi lentamente ma costantemente mandati avanti con risorse specialmente ministeriali, i ‘numeri’ potevano esser precisati. Nell’occasione della restituzione del trecentesco Crocifisso di Bernardo Daddi al Museo Bardini, nel settembre 2011, furono comunicati agli organi d’informazione gli elementi di un bilancio provvisorio, così riportati nei comunicati stampa:

Gli archivi delle soprintendenze registrano al 2005 che i dipinti danneggiati furono complessivamente 1480. […] 1220 sono stati restaurati e restituiti, mentre 260 sono ancora in attesa di intervento nei vari depositi della soprintendenza del Polo museale fiorentino. Alcuni restauri sono in corso. E il prossimo 4 novembre, riavrà tele e tavole di Cigoli, Neri di Bicci, Naldini. Ma nei magazzini della Palazzina Poggi, accanto a Palazzo Pitti aspettano intelati e allineati nelle rastrelliere ancora 181 opere, di cui 150 tele e tavole. A Palazzo Serristori ce ne sono altre 84, di cui 75 fra tele e tavole. Alla Limonaia di Villa Corsini e nei deposti sopra la Grotta del Buontalenti a Boboli, si contano rispettivamente 340 e 240 affreschi.

Le comunicazioni qui esposte in sintesi erano fondate su un’ampia e accurata campagna di revisione delle opere conservate nei diversi depositi della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici che – in seguito alle trasformazioni subite negli anni dagli organi periferici del Ministero – aveva allora in carico il pesante e disperso lascito dell’arte sacra prelevata a vario titolo (non solo nel ’66) dai luoghi originari, per cura dei funzionari della tutela.

Un vero riordino complessivo dei depositi (lavoro lungo, lento, di poca o nulla visibilità ma svolto da un manipolo di professionisti dedicati con preparazione di storici dell’arte e con perspicacia di detective) fu avviato con decisiva energia da Bruno Santi, il Soprintendente di allora per la tutela dei beni artistici e storici del territorio; confluita poi nel Polo Museale Fiorentino quella competenza, toccò a me rendere possibile la continuazione dell’impresa, che si venne complicando quando si rese necessario rimuovere altre opere in deposito dalla Certosa del Galluzzo.

“Molti sono frammenti di difficile ricomposizione e attribuzione, altri sappiamo da dove vengono ma serve una revisione e un riordino, non tutte sono opere alluvionate, in gran parte vengono dalle chiese del centro storico”, dichiarò in corso d’opera Matilde Simari, coordinatrice di quell’esemplare ricognizione che dovette includere autentici traslochi e riallestimenti dei beni in deposito, e curatrice della pubblicazione di un prezioso repertorio illustrato in due volumi su quell’argomento (5).

Nel tempo intercorso – e di nuovo, mi concentro sul patrimonio artistico – non era mai venuta meno l’attività di recupero, facente capo principalmente all’Opificio delle Pietre Dure nei suoi vari settori (Bronzi e Armi Antiche per le Porte del Ghiberti, e per la pittura i Settori Pitture Murali e Dipinti su tela e tavola con falegnameria), e all’Ufficio Restauri della Soprintendenza nelle sue varie trasformazioni, fino all’ultima, in Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico, istituto scomparso con la recente riforma del Ministero. Marco Ciatti e Magnolia Scudieri, dal punto di vista delle rispettive responsabilità presenti e passate, ne danno conto in questo catalogo con testi efficaci ed esaurienti, che rimarranno – come del resto tutti gli altri contributi, fatti pervenire dagli autori con liberale sollecitudine – vere e proprie pietre miliari nella progressiva storicizzazione di questo evento.

Laboratori di restauro per tipologie specialistiche si formarono o furono potenziati negli anni dopo l’alluvione, dedicandosi presso gli istituti di appartenenza a materiali archeologici, documenti cartacei, libri, strumenti scientifici, strumenti musicali ecc. E non di rado spiccandosi da quelli, entrarono in attività laboratori privati, prevalentemente nella forma della ditta individuale. È stato osservato in più occasioni, e si può solo confermare, che il ruolo di Firenze come riconosciuto centro di riferimento – che qualcuno definisce “capitale” – del restauro e di tutte le discipline e attività appartenenti a questo vasto campo ha per fondamento e motivazione il lascito permanente derivato dall’alluvione: l’operatività, la ricerca scientifica e tecnologia (entrata con essa in stretta alleanza), la formazione nelle discipline della conservazione si affermarono e si consolidarono, diversificandosi, nei decenni successivi al 1966. Lo scenario naturalmente è cambiato nei decenni, e man mano che, nel settore pubblico dei beni culturali, gli istituti vedono assottigliarsi senza ricambio i ranghi dei dipendenti che avevano creato e popolato i laboratori di restauro formati o potenziati nell’emergenza, giovani ricercatori e operatori portano avanti – come possono, nell’esiguità delle risorse e delle opportunità loro concesse – il patrimonio di conoscenze e di esperienze specifiche trasmesso dalle scuole, a partire dalla Scuola di Alta Formazione dell’Opificio delle Pietre Dure, dall’università, dai centri di ricerca, senza dimenticare o sottostimare il tramando di “bottega”.

È a questo fenomeno, anzi insieme di fenomeni vasto e complesso che la mostra intende dare visibilità, affinché il passato sia ricordato come merita e soprattutto messo al servizio del presente e del futuro. Ogni oggetto esposto è stato scelto per se stesso ma anche per la provenienza che evoca, per la problematica che manifesta, per il racconto che esprime, per i simboli che sottende.

Il Comitato Firenze e Toscana 2016, presieduto dal Sindaco di Firenze e della Città Metropolitana Dario Nardella e dal Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi con il vicepresidente Mario Primicerio e il segretario tesoriere Giorgio Federici, ha fortemente voluto e ‘messo in moto’, questa mostra all’interno di una serie di manifestazioni che il Comitato stesso ha promosso e accolto, riscuotendo l’adesione di un centinaio di enti, culturali e non soltanto. Personalmente sono onorata di aver ricevuto dal Comitato il mandato di curare la mostra e il catalogo, insieme con Elena Capretti, studiosa e organizzatrice culturale nota per qualità come il rigore, la competenza e l’efficienza; anche se a ben guardare, la scelta di affidarmi tale incarico mi pare fondata (oltre che sulla fiducia che mi auguro di meritare) sul valore aggiunto della mia posizione di ‘ultima’, qui in compagnia degli ‘ultimi’. Non si veda nella definizione un’umiltà d’ispirazione evangelica: si tratta, piuttosto, dell’inserimento in una categoria meramente cronologica. Il ruolo di Soprintendente che ho ricoperto fino al 2014, poi sostenuto ad interim da dirigenti di organi periferici del Ministero BACT a causa della riforma ministeriale fino all’assestamento delle responsabilità apicali nel 2015, comportava una gestione e una tutela unitarie dei beni nei musei, nei depositi, negli edifici di culto e altro del ‘territorio’, che risultano oggi suddivise fra centri diversi di responsabilità. Mi pare dunque d’esser stata l’ultima titolare ad aver maturato una visione d’insieme del lascito dell’alluvione nei diversi luoghi di pertinenza dei beni artistici e storici, valorizzando gli aspetti positivi e gestendo le criticità residue. Da queste appunto – delle criticità residue – provengono gli altri ‘ultimi’ che citavo, secondo un’azzeccata definizione subito fatta propria da tutti noi: gli ultimi dipinti, gli ultimi legni, gli ultimi frammenti, lacerti e reliquie ancora in attesa di restauro, anelli finali della catena di attenzioni e di interventi lunga cinquant’anni e non ancora conclusa.

Questa conclusione mancata, o differita, non ha mancato e non manca di suscitare periodiche ondate di polemiche, che s’infittiscono in coincidenza con i decennali: ricordo come specialmente virulenta la campagna mediatica del 2006. E certo, è difficile far percepire all’esterno dell’ambito della tutela e conservazione delle opere d’arte, come il lavoro di recupero lento, paziente, capillare (via via difficilmente sostenibile sul piano finanziario, una volta spenti i riflettori dell’attenzione sui capolavori) sia andato avanti a tappe negli anni, e tuttora duri. Dunque non c’era e non c’è da stupirsi più di tanto se otto dipinti su tavola, fra cui grandi pale d’altare con le loro altrettanto monumentali cornici, tornarono a Santa Croce solo nel 2006, dopo il restauro di ognuno compiuto dal Laboratorio della Fortezza dell’Opificio delle Pietre Dure. Se solo allora prese il via, per impulso e col decisivo apporto della Protezione Civile, il restauro dell’Ultima Cena di Giorgio Vasari, pure da Santa Croce, completato dopo un sapiente e impegnativo intervento del medesimo Opificio delle Pietre Dure, che ho avuto la gioia di far intraprendere. Se solo grazie al “Progetto Medici” delle Università di Firenze e di Pisa, partito nel 2002 con lo scopo di indagare le paleopatologie della casata, negli anni seguenti si riordinarono le sepolture nel Museo delle Cappelle Medicee presso San Lorenzo, ripulendo i sacelli dai sedimenti dell’alluvione e ricomponendo i resti. E non sorprende gli addetti ai lavori che innumerevoli altri manufatti, artistici e documentari dovessero attendere a lungo una lenta e graduale azione di recupero in depositi faticosamente allestiti, disseminati, disallestiti, riorganizzati, spostati, accorpati… in vista di un’azione di recupero che per alcuni ‘pezzi’, specie di quella suppellettile liturgica di modesta e seriale fattura che nessuno reclama e nessuno più userebbe per il culto, non ha ancora avuto luogo.

Sono anche loro, quegli ‘ultimi’ di cui si è portata in mostra un’eloquente rappresentanza, a simboleggiare il presente e il futuro di chi si occupa della tutela del patrimonio artistico e culturale. Ad essi è ancora possibile e doveroso dedicare risorse: come hanno fatto nel tempo operatori del restauro, individui o piccole ditte che fossero, che hanno eseguito gratuitamente restauri di oggetti cui mai avrebbe prestato attenzione uno sponsor; come fa proprio in questa ricorrenza cinquantennale l’Associazione Friends of Florence presieduta da Simonetta Brandolini d’Adda che, sempre sensibile alle esigenze del patrimonio artistico cittadino, dedica ad un’opera alluvionata il premio conferito nell’ambito del Salone del Restauro; come possono ancora fare sostenitori pubblici e privati.

Quegli oggetti, e la mostra intera, sono inoltre un monito per il futuro: perché l’esondazione dell’Arno non si ripeta (ed è la speranza di tutti i cittadini), ma anche perché, se si ripete, non trovi impreparate le sedi del patrimonio artistico e culturale.

Dove è stato possibile, interi nuclei di opere d’arte sono stati spostati al di sopra del presunto livello alluvionale (attenendosi a quello del 1966): è il caso di Santa Croce, dove coraggiosamente il Museo, per cura dell’Opera, è stato riallestito interamente in quest’ottica, fino a innalzare in Sagrestia la Croce dipinta di Cimabue, opera-simbolo della tragedia, fuori dalla portata dell’acqua (e degli sguardi). Ma altrove permangono condizioni di rischio pressoché identiche, poiché si ha la certezza, della quale purtroppo l’Autorità di Bacino dà regolarmente conferma, che ove si ripetesse un’esondazione di portata disastrosa, nonostante le opere provvisionali realizzate (dal Lago di Bilancino all’innalzamento delle spallette dei Lungarni al dragaggio del letto fluviale ecc.), e nonostante la ‘buona pratica’ generalmente invalsa di non immagazzinare o depositare beni culturali sotto il piano stradale e dove possibile neppure al piano terreno, i danni possono ancora risultare ingenti. Non solo nelle chiese, obbligate alla disposizione tradizionale delle opere d’arte sacra, ma anche nei musei, laddove si decise di far tornare tutto “dov’era e com’era”, come fu per la Sala di Michelangelo nel Museo Nazionale del Bargello. Questo – forse a causa di una volontà collettiva di superamento e di riscatto, che esclude dall’orizzonte razionale la prospettiva che il tragico evento abbia a ripetersi – è avvenuto e tuttora avviene (se si pensa allo splendido nuovo Museo dell’Opera del Duomo, con capolavori sommi al piano terreno), sebbene sia un dato di fatto abbastanza ovvio che una eventuale alluvione, in ragione dell’altimetria delle varie zone della città e del territorio, tornerebbe a invadere gli stessi luoghi e a mettere a rischio nella maggioranza dei casi i medesimi beni culturali, che non è stato possibile né opportuno allontanare dalle loro sedi storiche.

E poiché le ore che precedono, accompagnano e seguono un evento catastrofico sono particolarmente decisive, un lavoro assiduo e continuamente affinato viene svolto e resta da svolgere, da parte di tutti i soggetti aventi le competenze, nel campo della prevenzione. Pertanto gli istituti periferici del Ministero oggi dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo hanno, nel corso degli anni, messo a punto misure di prevenzione attive e passive, d’intesa con le autorità aventi compiti specifici, tra le quali la Prefettura e la Protezione Civile, e con l’importante settore del volontariato.

Un Protocollo d’Intesa interistituzionale relativo alla “Messa in sicurezza dei beni culturali fiorentini in caso di esondazione del fiume Arno” fu sottoscritto il 29 gennaio 2010, per contenere e mitigare i rischi, dotando ciascun istituto e luogo di un piano di emergenza specifico e soprattutto curando che l’intera gestione dell’eventuale catastrofe naturale, dal primo allarme ai soccorsi, possa contare su una “cabina di regia”, che coordini i professionisti della tutela e del restauro con le altre presenze in campo, specialmente con il già ricordato volontariato. La materia è ulteriormente normata a livello nazionale col Decreto del Ministero BACT del 30 giugno 2016 che detta i “Criteri per l’apertura al pubblico, la vigilanza e la sicurezza dei musei e dei luoghi della cultura statali”.

A fianco e oltre le procedure individuate e raccomandate dai soggetti pubblici, tuttavia, appare indispensabile e indifferibile trasmettere alle generazioni presenti e future la memoria della catastrofe, che resta altrimenti patrimonio esclusivo di fasce d’età avanzate. La memoria, narrativa e visuale, è la base della consapevolezza. E nei cittadini più giovani in Firenze e in Toscana, la consapevolezza specifica di abitare in un territorio connotato da un marcato rischio idrogeologico dev’essere inculcata attraverso una formazione apposita, oggi affidata a pubblicazioni divulgative e a cataloghi e articoli di taglio specialistico (molti fuori commercio), nonché al tramando familiare, alla scuola, agli organi d’informazione, ai momenti di rievocazione, alle evidenze testimoniali. Con questa mostra e col catalogo dell’accompagna – in coerenza e coincidenza con le tante manifestazioni attivate nel cinquantennale – si è inteso portare il contributo di una rete di memorie che è, sì, settoriale, ma che trattando di beni culturali percorre e innerva la nostra città e il nostro territorio conferendo ad essi tratti rilevanti, addirittura essenziali, della loro identità nel mondo.

Ci auguriamo che la missione comunicativa di questa mostra sia percepita così come l’abbiamo progettata ed espressa: e dunque non in termini di mera rievocazione della tragedia o di pur doverosa celebrazione della ‘resilienza’ del patrimonio culturale, bensì come strumento per trasmettere memorie e sensibilità specifiche a chi non c’era. Per questo ci auguriamo che la mostra sia visitata dai Fiorentini, anziani o maturi, giovani o giovanissimi, vecchi e nuovi – nuovi, sì: di origini e famiglie cinesi, indiane, africane, europee dell’Est, americane… – e che il catalogo entri non solo nelle biblioteche specializzate pubbliche e private, ma anche in tutte le case, raggiungendo sullo scaffale apposito, dove c’è, i libri e gli opuscoli pubblicati e diffusi nel mezzo secolo trascorso dal 4 novembre 1966.


  1. Rapporto sui danni 1967. Si elencano gli autori e i titoli: U. Baldini, I problemi del restauro; M.L. Bonelli, Al museo di Storia della Scienza; S. Camerani, Perdite e recuperi all’Archivio di Stato; E. Casamassima, La catastrofe della Biblioteca Nazionale; F. Rossi, A Santa Croce: inondata la basilica, sommerso il museo; G. Gamucci, San Niccolò, chiesa sommersa; P. Graziosi, Le gravi perdite del Museo di antropologia ed etnologia; C. Laviosa, Il Museo archeologico è, in parte, da “riscavare”; G. Morozzi, Gli edifici monumentali; G. Prunai, L’alluvione e gli archivi privati; F. Rossi, I danni nei musei fiorentini; G. Semerano, I danni alle biblioteche fiorentine e le tecniche di recupero; E. Settesoldi, All’Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore; L. Becherucci, Il 4 novembre alla Galleria degli Uffizi.
  2. Baldini 1966; Batini 1967; Bemporad 1967; Giordano 1967; Gurrieri 1967; Longhi 1967; Previtali 1967; Berti et. al. 1967; Procacci 1968; Ragghianti 1966; Thomas 1967.
  3. Molajoli 1970, dalla premessa.
  4. “La Nazione”, supplemento al n. 296, 2 novembre 1986, p. 21.
  5. Dai depositi Nei depositi 2013 e 2016.

Bibliografia del catalogo a stampa